Inquinamento acqua PFAS

Zaia, il consumo del radicchio rosso pieno di PFAS (anche a corta catena) è sicuro per la salute umana?

Gli autori di uno studio appena pubblicato in anteprima compiuto da ricercatori dell’Università di PD, dell’IRSA-CNR e dell’ARPAV hanno condotto un esperimento in serra, irrigando ceppi di radicchio rosso con acqua contenente concentrazioni variabili di 9 PFAS (vedi figura tratta dall’articolo originale); il radicchio fu fatto crescere su un terreno contenente anch’esso concentrazioni variabili delle PFASs esaminate. In particolare le concentrazioni totali delle PFASs erano 0,1, 10 e 80 µg/litro, cioè rispettivamente zero, 1000, 10.000 e 80.000 nanogrammi/litro per quanto riguarda l’acqua usata per l’irrigazione e 0,100 e 200 ng/grammo di terreno espresso come peso secco. Furono utilizzati 12 trattamenti.

Accumulo delle PFAS nelle varie parti del radicchio rosso irrigato in serra con acqua contaminata da nove tipi di PFAS

I risultati dello studio dimostrano come le PFASs si accumulano nel radicchio rosso, soprattutto le PFASs a catena corta. Il massimo dell’accumulo fu misurato per il PFBA, nelle radici (con un massimo di 43.000 ng/grammo di peso secco), seguito poi dalle foglie e dalla testa della cicoria. Il contenuto di PFASs a catena lunga diminuiva proporzionalmente alla lunghezza della catena delle PFASs. L’uso dell’acqua di irrigazione aumentava il trasporto di PFASs nelle parti aeree della cicoria, soprattutto delle PFASs a catena lunga. Come evidenziato dagli autori, i PFASs a corta catena (PFBA, PFBeA, PFAxA e PFBS, rispettivamente) si accumulano in tutte le parti della pianta, in accordo con i risultati ottenuti da altri autori che hanno studiato la distribuzione delle PFAS in altri tipi di vegetali, ortaggi e cereali. Nelle foglie le concentrazioni delle PFASs a catena lunga erano inferiore al limite di rivelazione della metodica, ma erano regolarmente presenti nella testa, la parte edibile (cioè quella che si mangia) della pianta.

In attesa di di leggere l’articolo nella sua versione definitiva, non possiamo a far altro che invitare tutti quei funzionari che per anni si sono sperticati ad avallare acriticamente le versioni delle multinazionali americane 3M e DuPont, nonché della Miteni, secondo le quali le PFAS a corta catena non si accumulano nei prodotti vegetali, ad andare a nascondersi e a dimettersi se ancora hanno un minimo di pudore residuo. Soprattutto coloro che sui siti istituzionali, sulle pagine facebook aziendali e negli incontri con la popolazione hanno sempre sostenuto che gli alimenti prodotti nella zona rossa erano sicuri e non costituivano una fonte di contaminazione per la popolazione. Fandonie. Fandonie, null’altro che fandonie

A nascondersi e a chiedere scusa a noi i ISDE in primo luogo e a tutti gli altri cittadini che sono stati lasciati in balia delle PFAS contenute negli alimenti e sacrificati sull’altare degli schei. Con la complicità interessata della Coldiretti, che ricordiamolo, ci inviò tanto di diffida perché le informazioni da noi (assieme al Coordinamento acque libere dai Pfas) stavano “ingenerando un allarmismo diffuso fra la popolazione, con una ricaduta notevole in danno ai coltivatori e allevatori della zona”.

Vergogna, Zaia, vergognati assieme a tutti coloro con i quali hai gestito l’affaire PFAS in Veneto. E comincia ad applicare finalmente il principio di precauzione, che finora ne avete fatto strame.

Uptake and translocation of perfluoroalkyl acids (PFAA) in red chicory (Cichorium intybus L.) under various treatments with pre-contaminated soil and irrigation water
AndreaGredelja
CarloNicolettobSaraValsecchicClaudiaFerrariocStefanoPolesellocRobertoLavadFrancescaZanondAlbertoBarausseaeLucaPalmeriaLauraGuidolineMarcoBonatoe


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https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2019.134766


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1 commento

  1. Salve Vincenzo e grazie della puntuale segnalazione.
    Tuttavia credo che Zaia&C siano gli unici a credere (o a farci credere) della bontà e salubrità dei vegetali partoriti da terreni tossici…
    E ad ogni modo, in campo alimentare, almeno possiamo disporre di analisi chimiche in grado di appurarne la commestibilità.
    Cosa del tutto diversa da quando si cerca di verificare il livello di contaminazione del sangue in noi “consumatori”.
    Ho scooerto infatti, grazie a medici valorosi e volenterosi, che in Italia non esiste un laboratorio, convenzionato o privato, in grado di effettuare tali indagini.
    I pochi, al nord, che eseguivano indagini “PFAS” ematologiche, da ciò che mi é stato riferito sono stati “inibiti” dalla stessa Regione Veneto.
    Ho contattato personalmente Medici Per L’Ambiente (ISDE), alcuni medici di base operanti nella entro la zina rossa, comunità all’interno della stessa e dulcis in fundu, anche l’ospedale da San Bonifacio, l’unico in Italia dotato della strumentazione di analisi PFAS riconosciuta dal Ministero della Salute. La risposta é stata sempre la stessa: non possiamo fare alcuna analisi. L’ospedale di San Bonifacio, reparto PFAS, mi ha comunicato che solo i soggetti individuati dalla Regione Veneto possono (eventualmente) accedervi.
    Ci sono medici operanti nelle aree contaminate che non sono in grado di verificare lo stato di contaminazione dei propri pazienti e di conseguenza non sono in grado di adottare la terapia più idonea.
    Divertente, questo Zaia&C , non trovate?

    Grazie

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